Fiesta

Tra un hors-d’oeuvre, un pastis, un brandy e un vino tinto della casa si dispiega la ricerca di libertà di Jacob Barnes. Un viaggio che lo vedrà comodamente seduto ai tavolini del caffè Select in Montparnasse (attenzione: non alla Rotonde, anche se «qualunque sia il caffè di Montparnasse dove vuoi farti portare da un taxista dalla riva destra del fiume, finisci sempre alla Rotonde.») intento a snocciolare discorsi sterili e poco coraggiosi sul senso di inquietudine che lo accompagna quotidianamente, nascosto dietro a un tasso alcolemico sempre più alto e la vista sempre più appannata.

La fame di libertà e di affermazione che accompagna Jake e i suoi quattro compagni di viaggio per tutto il corso del romanzo li porterà fino a Pamplona, la culla della vera Fiesta di San Fermín – fermandosi prima a Bayonne per una battuta di pesca in cui si poteva percepire il rumore dei torrenti vicini a Burguete e il gelo delle loro acque sui polsi.

A Pamplona una settimana ininterrotta di balli, canti, tori, vino e pugni in faccia, ma soprattutto alla bocca dello stomaco. La dolcezza di Brett ti avvelena con i suoi baci bagnati, che pensi in realtà siano sempre destinati a qualcun altro; Robert Cohn ti segue come un povero cane, a cui non riesci però a voler bene; e Bill e Mike per fortuna sai di poterli sempre trovare all’arena, ubriachi e sudati, ma sempre di buon umore.

E Jake? Jake ti accompagna in ogni piega del suo pensiero; così delicatamente che a volte ti senti in dovere di entrarci in punta di piedi; altre volte così prepotentemente che ti sembra di averlo fatto tu, quello stesso pensiero.

In un turbinio di odori e suoni, con la violenza di una scrittura estremamente raffinata come solo Hemingway ci regala, sai che in questo libro non potrai perderti mai. Ricerchi lo stesso palliativo che ricercano i protagonisti per poterti un po’ anestetizzare dalla realtà, ma con estrema amarezza sei consapevole di dovere accettare le sorti di Jacob Barnes, perché forse sai che sono anche un po’ le tue.

Fiesta è il primo romanzo di Ernest Hemingway, grazie al quale nel 1926 venne consacrato tra i più importanti scrittori della cosiddetta Generazione Perduta, la stessa di cui fanno parte i protagonisti della vicenda.

Attraverso quadri estremamente dettagliati e asciutti – e con richiami profondamente autobiografici – quella narrata da Hemingway in questo romanzo non è una storia. Fiesta è più che altro un processo, descrittivo ed emotivo.

Henrik Ibsen scriveva: «Scrivere equivale a processare noi stessi» e in questo caso, con un romanzo come Fiesta, siamo testimoni di una sentenza di condanna, che Hemingway fa a sé stesso, così come fa Jacob Barnes e così come facciamo anche noi.

E alla fine della Fiesta ci si sente leggeri, ma con quel senso di dolceamaro in bocca come solo le cose vere e genuine sanno darci quando finiscono.

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Camilla, 12 ottobre 2020